Duplice Metamorfosi

Giovanni Michelucci's Borsa Merci

Per Giovanni Michelucci la città era un organismo vivente, nel quale gli edifici si adattano alle esigenze della collettività, o vengono sostituiti. Ha dimostrato la sua coerenza nel seguire questo principio a Pistoia, dove senza remore ha demolito e ricostruito il suo edificio a pochi anni di distanza. L’autorevolezza nel sapersi correggere e la mancanza di pretese riguardo alla propria autorialità testimoniano una particolare attitudine verso l’etica e il progetto.

1 G. Michelucci, (Intervista a cura di F. Borsi), in Giovanni Michelucci, LEF, Firenze 1966, p. 116.

Palma triste

Santa Maria Novella

San Giovanni Battista

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Giovanni Michelucci (1891-1990), considerato uno dei maggiori protagonisti della storia dell’architettura italiana del Novecento è conosciuto, anche nel panorama internazionale, soprattutto per aver progettato la stazione fiorentina di Santa Maria Novella (1932-1935) e la chiesa di San Giovanni Battista detta dell’Autostrada (1960-1964) a Campi Bisenzio. Ma nel suo longevo percorso umano e professionale, il maestro toscano, nato a Pistoia nell’ultimo decennio dell’Ottocento e morto a Fiesole il giorno prima del suo centesimo compleanno, ha affrontato molti altri impegnativi incarichi sperimentando esemplari soluzioni architettoniche, di volta in volta appropriate al contesto e in accordo con le richieste della committenza.

Della proficua produzione progettuale michelucciana, alcune proposte a lungo studiate sono rimaste sulla carta, mentre molte altre hanno avuto un felice esito concreto. Tra queste si colloca senza dubbio la Borsa Merci di Pistoia, opera significativa per il lessico architettonico adottato e per l’efficace inserimento urbanistico in un contesto storico. Inoltre, la particolarità che enfatizza la storia di questa architettura perduta risiede principalmente nel singolare destino che ne ha determinato la breve esistenza, conclusasi infatti solo dopo dieci anni dalla sua realizzazione nonostante il riconosciuto valore. In sintesi, la Borsa merci è commissionata nel 1948, ultimata nel 1950 e demolita nel 1961, ma i presupposti iniziali, l’approccio progettuale da cui scaturisce la sua configurazione spaziale e le successive ipotesi di ampliamento che infine porteranno alla scelta di sostituirla con un altro edificio non sono affatto passaggi ineludibili.

Tagliare una palma triste

La vicenda della Borsa Merci ha inizio alla fine degli anni Quaranta, quando Michelucci, ormai stabilitosi a Firenze dopo il decennio trascorso a Roma, ha l’opportunità di ritornare a progettare nel pieno centro storico di Pistoia, sua città di origine. Esattamente nei primi mesi del 1948 la Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, nell’ambito di un più ampio programma di riassetto e sistemazione dei propri immobili situati nel centro cittadino, affida all’architetto l’incarico per la progettazione di una Borsa merci, uno specifico edificio adibito alle contrattazioni commerciali.

L’area destinata alla sua costruzione, ricavata dal diradamento dell’antico tessuto urbano operato negli anni Trenta, è situata sul retro della sede istituzionale della Cassa di Risparmio presso il monumentale palazzo neorinascimentale sorto tra il 1898 e il 1905 su progetto dell’architetto e scenografo Tito Azzolini. Al momento dell’incarico, il sito prescelto era occupato da una spoglia area verde che, nelle considerazioni rilasciate in merito ai presupposti progettuali che lo avevano ispirato, è ricordata da Michelucci come un angolo non vissuto della città che egli avrebbe voluto da sempre modificare e rendere vivibile.

“Ricordo un'aiuola con una palma nel luogo dove poi nacque questa Borsa Merci. Era una di quelle aiuole 'domenicali' desolate, con in mezzo una palma triste. (...) Quando seppi che avrei dovuto costruire sopra quell'aiuola, il pensiero di poter tagliare quella palma mi entusiasmò. Mi preoccupai principalmente di riportare la vita in quel settore di città che l'aveva rifiutata fino allora ostinatamente.”1

Come si evince dalle sue parole, per Michelucci l’intento era quello di affrontare il tema progettuale con l’obiettivo prioritario di rivitalizzare un luogo della città trascurato. Per giungere a questo proposito l’architetto adotta un approccio aperto anche dal punto di vista urbanistico mirato a ricreare un luogo accogliente e ospitale in grado di attrarre la vita.

É interessante ricordare inoltre che l’opera è concepita negli anni del secondo dopoguerra, quando l’architetto pistoiese ha appena lasciato la cattedra di Composizione presso la Facoltà di Architettura di Firenze per trasferirsi a insegnare alla Facoltà di Ingegneria di Bologna. E non a caso la soluzione compositiva adottata in questo progetto, che Michelucci firma insieme all’ingegnere Alessandro Giuntoli, riflette il rinnovato interesse per il senso estetico della struttura. Nell’edifico della Borsa Merci l’ossatura portante schematica e elementare costituita da sette portali in cemento armato emerge dall’involucro murario conferendo dinamismo e leggerezza all’insieme.

Il salone interno è un ambiente a volume unico di circa trecento metri quadrati perimetrato dalla linea orizzonale dei ballatoi a sbalzo che si innestano a metà altezza lungo le pareti. Lo spazio appare modellato dai profili rastremati dei telai e delle mensole che sostengono la balconata continua dei ballatoi dove si trovano le dieci cabine riservate ai colloqui e alle singole ditte per le contrattazioni private. La regolarità simmetrica dell’ambiente è movimentata dal corpo autonomo della scala a doppia rampa posta in posizione decentrata che conduce alla quota dei ballatoi. Un seconda scala porta al piano interrato destinato ai locali di servizio.

2 R. Dulio, Giovanni Michelucci 1891-1990, Milano 2006 , p. 212.

3 G. Michelucci, (Interview von C. Buscioni), in La città di Michelucci, Ausstellungskatalog, Fiesole 1976, herausgegeben von E. Godoli, Perretti Firenze 1976, S. 169

Un vano vetrato

Cassa di Risparmio di Firenze

La chiarezza dell’impianto planimetrico si legge anche all’esterno, dove la successione delle aperture del prospetto laterale è scandita dai telai strutturali in evidenza ed è delimitata alle estremità da due muri pieni in filaretto di pietra alberese. Questa facciata, che fronteggia la stretta via dell’Acqua, con la sua rigorosa modularità risulta la più caratteristica e caratterizzante dell’edificio. Ciascuna maglia, cioè ogni porzione compresa tra due telai consecutivi, è quasi interamente vetrata, se si escludono gli architravi e i parapetti, ed è scandita in senso verticale da variazioni che denunciano i tre livelli interni: la fascia vetrata inferiore si imposta sull’alto parapetto del piano terra; traslucidi vetri termolux schermano le aperture degli uffici riservati nel piano intermedio; la terza parte vetrata, inclinata verso l’interno rispetto al filo dei montanti dei telai, provvede a illuminare dall’alto l’aula interna a doppio volume.

L’apparato compositivo della facciata principale su via San Matteo è reso dalla simmetria dettata dall’alternanza dei vuoti e dei pieni. Le superfici vetrate concentrate nella parte centrale risultano inquadrate alle due estremità dallo spessore dei risvolti in pietra delle larghe fasce laterali. I due accessi lievemente arretrati, oltre a ricreare una zona di sosta esterna coperta, mettono in evidenza la vetrina scatolare centrale studiata appositamente per non interrompere la relazione visiva tra interno e esterno. Su di essa campeggiano i caratteri eleganti e essenziali dell’insegna che nelle riprese notturne dell’epoca conferisce all’architettura una suggestiva nota scenografica.

Alla sommità, l’ampia falda aggettante della copertura a capanna conclude il sistema compositivo del prospetto e protegge la terrazza lievemente rientrante che come una sottile linea d’ombra ritaglia il prospetto in larghezza sotto la linea di gronda. L’uso del rivestimento in pietra alberese a conci sbozzati allevia il contrasto con le porzioni in cemento a vista ristabilendo nel contempo un richiamo espressivo e materico con le superfici rugose degli edifici storici circostanti.

Questa opera è stata per Michelucci un’esperienza importante, un episodio che segnerà l’inizio di una nuova stagione creativa in cui appare evidente l’intento di ricreare una continuità tra l’interno e l’esterno; concepita come un brano di città, mitiga il divario di scala che intercorre tra disegno architettonico e piano urbanistico.

Critica per eccessiva modernità

La Borsa Merci, è stata elogiata dalla critica proprio perchè ritenuta un esempio di corretto inserimento ambientale che si allinea ai valori figurativi del sito senza imitarne il linguaggio. Essa si insinua nel tessuto urbano della città medievale con naturalezza e in sintonia con la mole dominante dell’edificio neorinascimentale e con la piccola Chiesa di San Leone situata oltre via dell’Acqua. In particolare con quest’ultima stabilisce una sorta di affinità avendo in comune dimensione, volumetria e orientamento.

Nonostante i molti consensi però l’opera, appena ultimata, suscitò anche qualche clamore tra l’opinione pubblica e venne criticata per la sua eccessiva modernità. L’innovativo impiego del vetro che consentì di conferire all’edificio, quasi totalmente perforato, un aspetto audace per la sua trasparenza e la conseguente qualità di proiettare lo spazio chiuso verso l’esterno non venne ben compresa dai pistoiesi. In alcune testate giornalistiche locali i detrattori si pronunciarono contro questa opera come offensiva nei confronti dell’architettura e della città chiamandola “la gabbia dei grilli”2 prendendo a prestito l’aulico esempio dell’appellativo coniato da Michelangelo per sminuire il ballatoio traforato inserito da Baccio d’Agnolo sopra il tamburo della Cupola di Santa Maria del Fiore.

Tuttavia, a circa quindici anni dall'ultimazione dei lavori, la Borsa Merci risultava inadeguata per le nuove esigenze e insufficiente per le ridotte dimensioni. La necessità di ulteriori spazi obbliga in un primo momento la proprietà a ipotizzare un ampliamento dell’edificio e Michelucci, a partire dal 1957, studia alcune proposte progettuali che prevedevano la sopraelevazione di un piano e l’aggiunta di nuovi volumi. Per incompatibilità statiche della struttura le proposte elaborate verranno scartate e nel 1961 si arriva alla decisione di demolirla e realizzare al suo posto una nuova e più adeguata costruzione. All’estrema soluzione di abbattere l’opera, affatto convenzionale per un edificio ultimato da soli quindici anni, si giunge con la piena approvazione del progettista stesso, il quale ritenne questa decisione non solo risolutiva ma l’unica praticabile.

“La validità di alcune mie costruzioni sta per me nel fatto di soddisfare la speranza del cittadino di sentirsi considerato. Questo è quanto più mi interessa; ciò a cui è volto il mio massimo impegno di costruttore. Oggi per me che un edificio sia bello ha un’importanza molto relativa. L’importante è che attragga la vita, che animi la città. E solo il fatto di restare vivo nel tempo può giustificare la sua conservazione: altrimenti va demolito. lo sono fedele a questo principio e sono stato coerente allorché ho preferito veder demolire la Borsa Merci di Pistoia piuttosto che vederla decadere nella sua funzione in quanto non rispondeva più alle mutate esigenze della città. Così io non ho lacrimato quando è stata buttata giù, poiché dal momento che la vidi trascurata e insufficiente, ne decretai in me stesso la morte.”3

Con queste semplici ma esaurienti considerazioni, in una intervista rilasciata nel 1976, Michelucci spiega chiaramente con quale convinzione e stato d’animo sereno avesse vissuto l’esperienza della demolizione della Borsa Merci e la conseguente progettazione del nuovo edificio bancario che l’avrebbe sostituita.

Un nuovo rapporto con la città

Dunque, accantonata l’idea di ampliare la Borsa Merci, nel 1959 Michelucci avvia gli studi per un edificio da realizzare ex novo adeguato a ospitare la sede centrale della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia (1957-1965). Gli studi progettuali definiti nei primi mesi del 1960, che delineano un organismo inedito, attingono indirettamente e criticamente da un’altra felice esperienza professionale nell’ambito dell’edilizia bancaria affrontata da Michelucci in quegli anni, ovvero la progettazione della prestigiosa sede centrale della Cassa di Risparmio di Firenze (1953-1957) in via Bufalini a Firenze.

Il progetto esecutivo del secondo edificio pistoiese, che risulta definito già nell’aprile del 1961, subirà varianti successive e modifiche anche in fase di cantiere. Superate le criticità emerse durante i lavori, dovute anche alla complessità della messa in opera dei telai metallici, l’edificio verrà ultimato solo dopo cinque anni. Il nuovo edificio di maggiori dimensioni, oltre ad incorporare lo spazio in precedenza occupato dalla Borsa Merci, si estende, nella parte retrostante del lotto, sulle aree ricavate dall’abbattimento delle costruzioni residue; anche sul fianco guadagna un margine maggiore di spazio addossandosi all’edificio neoquattrocentesco già sede storica della Cassa di Risparmio. Nel punto di congiunzione con quest’ultimo, l’architetto inserisce un vano vetrato, una sorta di galleria che contiene un accesso secondario mentre mantiene l’ingresso principale sulla facciata che fronteggia via San Matteo.

La nuova sede bancaria, che sommariamente ripropone la volumetria e il medesimo impianto planimetrico rettangolare della Borsa Merci, presenta all’esterno una diversa caratterizzazione formale che ne modifica il rapporto di relazione con lo spazio urbano. Rispetto alla precedente costruzione, che si distingueva per la trasparenza tra interno e esterno, questa architettura appare a prima vista più ermetica e impenetrabile. La composizione dei prospetti e le peculiarità materiche del rivestimento in blocchi di pietra di San Giuliano lavorati a bugnato, provenienti dalle cave della vicina provincia pisana, conferiscono al volume un aspetto più compatto e riservato.

Una lettura più attenta rivela il disegno ricercato dell’impaginato di facciata che segue un ritmo armonioso: sul paramento lapideo si alternano i profondi tagli delle finestrature, le fasce intonacate, le travi in cemento a vista e i telai metallici. La continuità muraria dell’articolato fronte principale è conclusa alla sommità dal piano di copertura che si stacca a sbalzo sull’ultimo piano rientrante.

Anche lo spazio interno replica la disposizione del precedente edificio e si configura come un ampio salone attraversato in senso logitudinale dal lungo bancone degli sportelli che delimita il settore per il pubblico da quello per gli impiegati. Il volume interno a doppia altezza è attraversato da un ballatoio sorretto da robuste travature in cemento appoggiate su quattro coppie di possenti pilastri addossati alle pareti perimetrali. Il salone degli sportelli sembra rievocare l’ambientazione di una scenografica galleria movimentata in quota da passerelle aeree e dall’elegante scala a doppia rampa rivestita in marmo rosso che si attesta ad una estremità del salone. Il progettista disegna anche gli elementi di arredo lignei ma l’attuale allestimento è l’esito di una ristrutturazione successiva.

Questa intricata e singolare vicenda, che ha determinato la costruzione di due apprezzate opere architettoniche edificate a distanza di un breve arco temporale sul medesimo sito, certamente scaturisce dalla concomitanza di alcuni fattori favorevoli riconducibili anche ai rapporti di buona intesa con la committenza e al consenso dell’opinione pubblica e della critica di settore.

Il principio della variabilità

Ma in prima istanza, la duplice metamorfosi di questo spazio urbano rappresenta in concreto il principio di variabilità, chiaramente enunciato da Michelucci, con il quale si riferisce all’idea di una nuova città pensata come un organismo mutevole e sensibile alle reali esigenze della collettività. Dunque una città da intendersi nuova nella sua conformazione spaziale e sociale. In questa visione di città, dove il cambiamento non è solo un passaggio inevitabile ma soprattutto un miglioramento auspicabile, si riconosce la posizione assunta da Michelucci nel concepire le sue architetture. Si ritiene utile osservare infatti, che tra la prima opera - elogiata unanimamente dalla critica per autonomia formale e chiarezza distributiva - e il concretizzarsi della seconda soluzione progettuale, l’architetto matura quell’atteggiamento pragmatico che vede nel rinnovamento di ogni spazio e di ogni edificio il senso profondo della vità della città. Dalle esperienze professionali affrontate in questo periodo, si consolida in lui l’idea di una architettura che deve trovare nel tessuto urbano circostante, non un destinatario su cui proiettare semplicemente un messaggio di senso estetico ma, un interlocutore attivo con il quale poter intraprendere un approfondito scambio di relazioni.

L’obiettivo primario perseguito da Michelucci nel progettare un edificio risiede nella ricerca della vivibilità dello spazio costruito che è pensato in continuità con la città e dunque senza distinzione tra spazio architettonico e spazio urbano. Michelucci concepisce i suoi edifici come frammenti di città dove la percorribilità totale rappresenta la componente principale non solo nella disposizione distributiva degli ambienti interni ma anche nella direzione esterna, quindi di connessione con il contesto ambientale circostante. Proprio dalla profondità di questo approccio emerge il carattere dell’architettura michelucciana a prescindere dalla sua tipologia e destinazione d’uso: sia che si tratti di case, chiese, ospedali, scuole, uffici e banche, il suo fine progettuale è il benessere materiale e spirituale di chi fruisce quei luoghi e, in una concezione più ampia, di tutti gli abitanti della città. Chiaramente quando parla di spazio di benessere intende riferirsi con questo termine proprio all’esigenza di progettare in armonia con la natura dell’uomo.

Etica e progetto

Michelucci tiene in alta considerazione il rapporto tra etica e progetto e attribuisce alla professione di architetto un ruolo impegnativo e di responsabilità sociale. Per Michelucci un’opera è valida solo quando questa è pensata e realizzata con la partecipazione di una comunità. Egli crede fermamente nella necessità della collaborazione e dell’ascolto in ogni fase progettuale e realizzativa dell’opera, dunque nei confronti dei collaboratori, degli operai e degli uomini che nello spazio costruito dovranno vivere e lavorare. Dopo aver affrontato il processo ideativo, spesso non privo di tormenti e ripensamenti, Michelucci è solito frequentare quotidianamente il cantiere per seguire la genesi delle sue architetture e durante i lavori di costruzione instaura un dialogo con le maestranze valorizzando il sapere e l’esperienza di ciascun artigiano elogiandone il loro contributo.

Egli crede con convinzione nell’importanza della partecipazione e con umiltà e modestia si sottrae dal ruolo, per lui ingombrante, di protagonista assoluto della sua architettura. Scevro da ogni atteggiamento di ambizione professionale non avverte l’esigenza di dover rivendicare la paternità della propria opera e dichiara il suo totale disinteresse nei confronti di quella critica che lamenta nelle sue architetture l’assenza di una marcata e identificativa cifra stilistica. È inconfutabile che la sua fertile e longeva produzione architettonica sfugga ad ogni tentativo di classificazione e rifiuti etichettature riconducibili direttamente a qualsivoglia tendenza, corrente o movimento.

La sua ricerca mai lineare e che a prima vista potrebbe apparire discontinua – poichè alimentata dalla tenace volontà di riproporre ad ogni incarico risposte diverse senza arroccarsi sui traguardi raggiunti – ritrova, come già visto, una costante invariabile proprio nel tema dello spazio-percorso, del passaggio urbano, della galleria coperta quale elemento integrato nella città e polo di attrazione della vita comunitaria. In molte sue opere, come nel caso dei due edifici bancari analizzati, l’introduzione dei ballatoi rende lo spazio totalmente percorribile e fluido. L’ambiente interno si compone secondo linee di confluenza che hanno un preciso ruolo per rispondere alle esigenze di relazioni indispensabili allo spontaneo svolgersi delle funzioni. Il percorso non è inteso da Michelucci per assolvere un semplice ruolo distributivo ma come elemento che informa la successione degli spazi interni riconducendoli ad un organismo articolato e unitario con la città.

Inoltre, nell’affrontare entrambi i progetti pistoiesi, non dimostra alcuna preoccupazione o incertezza nel proporre soluzioni innovative anche se in contrasto con il contesto storico di riferimento. Un esempio da ricordare – perchè emblematico di questo modus operandi ma che purtroppo non ha avuto seguito costruttivo procurando all’architetto non poche amarezze e delusioni – è l’episodio della ricostruzione del centro storico di Firenze nel secondo dopoguerra. In quel caso Michelucci prende le distanze dalla concezione diffusa e imperante della necessità di interventi mimetici sostenuti dal principio di ricostruire Firenze “dov’era e com’era” e in difesa della sua posizione elabora alcune coraggiose e innovative proposte di segno opposto. Dalla drammatica visione delle macerie egli intravede l’opportunità di risanare il tessuto urbano medievale mediante l’inserimento di una nuova trama edilizia arricchita di luce e spazialità con edifici moderni a gradoni, passerelle e strade con sviluppo a quote diverse. I suoi studi avveniristici per la ricostruzione dell’area intorno a Ponte Vecchio sono un manifesto dell’idea michelucciana di nuova città, da intendersi variabile perchè in grado di adeguarsi al cambiamento, come in quella fase specifica di transizione obbligata che la città di Firenze allora era destinata ad affrontare.

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